CUTI, CIOLINO, MONACO, SAN NICOLA

TIPO DI BORGO — A (PRESENTI SOLO CASE COLONICHE)

progettista — N. D.

data di progetto — 1940

località — c.de cuti, ciolino, monaco, san nicola

stato di conservazione — pessimo

Questa scheda tratta delle case coloniche costruite dall’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano (ECLS) in una vasta zona che ricadeva all’interno del Consorzio di Bonifica Cuti – Ciolino – Monaco – San Nicola. In quest’area, l’Ente aveva progettato due centri rurali: Borgo Ciolino e Borgo Ingrao, quest’ultimo nei pressi del Feudo Tùdia, di cui si occuparono Eugenio Scalfari ed altri cronisti dell’Espresso nella famosa inchiesta “L’africa in casa”.
Situato a sud-est di Resuttano, a 617m. s.l.m., a circa 14 Km dal centro abitato, il nucleo originario di Borgo Ciolino sorse presumibilmente intorno al XVIII sec. come tipica espressione di un particolare quadro storico e socio-economico, caratterizzato dal latifondo e dalla mezzadria da una parte e, dall’altra, dall’isolamento dovuto alla mancanza di reti di comunicazione. Dei primi insediamenti, consistenti in dimore dette “pagghiari” (pagliai), destinate ad abitazione e per il ricovero degli animali, si hanno ancora tracce visibili nel centro di Ciolino. Risale alla metà dell’Ottocento la costruzione della chiesetta dedicata all’Immacolata Concezione, attorno alla quale è ancora possibile riconoscere quello che dovette essere il nucleo centrale della borgata.
Proprietà del Vescovo di Cefalù fino alla legge “delle guarentigie”, con la quale, durante il primo decennio del Regno d’Italia, furono confiscati i beni ecclesiastici, il borgo fu diviso in 135 lotti nel 1867. Gran parte di questi fu acquistata dalla famiglia Pottino di Capuano e dalla famiglia Pucci di Benefichi. Insieme ai lotti, le stesse famiglie acquistarono anche la grande maggioranza dei caseggiati (per maggiori info, clicca qui).
Dagli anni ’20 del XX Secolo, la lotta al latifondo e ai grandi proprietari terrieri fu uno dei temi di maggiore interesse per il governo fascista e, come sappiamo dalle varie relazioni, dagli studi e dalle teorizzazioni di Arrigo Serpieri, Giovanni Mulè, Giovanni Lorenzoni e altri, fu affrontata in modo attento, articolato ma con non poche difficoltà. Spezzare quel latifondo in mano a pochi, dunque, diventava una priorità.
Con il R.D.L. 19 Novembre 1925 n.2110 venne istituito l’Ente Vittorio Emanuele III per il Bonificamento della Sicilia (Ente VEIII) – ente controllato dal Banco di Sicilia – che si occupò di «promuovere, assistere ed integrare in Sicilia, ai fini del bonificamento, con particolare riguardo alle trasformazioni fondiarie, l’attività di privati, singoli e associati, condizionandola con quella dello Stato». Molto spesso però, l’azione dell’Ente, giudicata inconsistente, subì forti critiche e condanne da parte del mondo agrario. I soldi investiti, infatti, erano spesso destinati ad opere effettivamente poco utili allo slancio delle attività agricole in una terra in cui i problemi sul miglioramento fondiario erano svariati e le comunicazioni erano quanto meno proibitive. E non bastava l’accorato articolo contenuto in “Le vie d’Italia” del Maggio 1932 (disponibile online) in cui il cronista Angelo Colombo sottolineava finanziamenti per 97.000.000Lire per la costruzione di «vere e proprie strade di bonifica agraria». Erano necessari organi strutturati e realmente consapevoli all’azione da seguire per sfruttare al meglio le risorse che l’isola offriva. Nel 1928, erano presenti solo quattro consorzi in tutta la Sicilia che ricoprivano appena 80.000ha.  Solo nel 1929, vennero alla luce altri otto consorzi tutti interessati, però, all’esecuzione di sole opere di viabilità: tra questi quello Portella del Morto, Cuti, Ciolino Moscano i cui proprietari erano Pottino e  Pucci, come riportato in Sicilia Agricola del 15 Gennaio 1929.
I problemi maggiori riguardavano non tanto le attività ma i finanziamenti pubblici ai consorzi. Alla fine del Gennaio 1929, De Francisci Gerbino – autore di un esauriente studio sulle condizioni dell’agricoltura in Sicilia e in seguito direttore dell’osservatorio di economia agraria presso l’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano – denunciava che, nonostante i fondi per la Bonifica Integrale erano ingentissimi, non erano illimitati. Tale riflessione si basava sull’analisi di un sistema in cui era palese la frequentissima «collusione tra notabili terrieri ed autorià locali» che favorivano i contributi fino all’87,5% previsti per la costruzione di strade di bonifica contro il 40% per quelle interpoderali. Nacque così un acceso scontro tra Giovanni Morso a difesa degli interessi dei proprietari e lo stesso De Francisci Gerbino che con fermezza sosteneva che non bastavano le opere stradali ma era necessaria una visione più ampia della bonifica per «un futuro decollo economico dell’isola» (fonte, Sicilia Agricola del 31 Maggio 1929).
La casa colonica all’interno del progetto di Bonifica Integrale e di miglioramento fondiario ricopriva un «carattere di prevalenza”: in un articolo presente nel quarto numero di “Bonifica e Colonizzazione” dell’Aprile 1937, Giovanni Volpe sosteneva come l’abitazione rurale rappresentasse «l’atto finale della bonifica […], realizzando sia una finalità sociale, sia una più intensa attività economica».  Per ciò, era necessario risolvere i problemi legati all’approvvigionamento idrico, alla scarsità di aria e luce, alla promiscuità di vita in un unico ambiente,  all’eccessivo affollamento di abitanti. Oltre a tali opere, così come suggerito da Arrigo Serpieri, era necessaria la costruzioni di centri di servizio, indispensabili alla popolazione. Secondo tali riflessioni, la zona di Ciolino rappresentava un ottimo campo di prova per l’esperimento bonificatore.
Nel 1937, il Consorzio di Bonifica Cuti – Ciolino – Monaco – San Nicola – in cui era presente solo una strada di trasformazione fondiaria – rientrava tra le aree prese in considerazione dall’Ente VEIII per la costruzione di un nuovo centro rurale insieme a quelli che sarebbero sorti in Sicilia nelle località Mongialino, Calcibaida, Disueri, Ponte Olivo, Casino Sette Feudi, Antalbo, Sparacia e Casalbianco.
Gli scarsi risultati dell’Ente VEIII da un lato e le diverse necessità del Governo dall’altro portarono alla creazione dell’ECLS definito con l’articolo 4 della Legge n.1 del 2 Gennaio del 1940. Anche in questo caso si «puntò sull’iniziativa privata che il governo […] avrebbe stimolato e controllato più da vicino». La previsione e gli intenti degli organi dell’ECLS auspicavano la costruzione di più di ventimila case coloniche su 500.000ha di terra. Al 1939, le prime 2507 case furono realmente realizzate, tra queste quelle nei territori di Resuttano e Santa Caterina Villarmosa.
Partendo dagli studi del 1936 di Giuseppe Pagano e Guarniero Daniel presentati nel volume “Architettura Rurale in Italia” e dall’esperienza maturata da Mazzocchi Alemanni in Agro Pontino, l’ECLS stilò quattro tipi di case coloniche sotto la supervisione dell’Architetto Giuseppe Guercio con caratteristiche e prezzi diversi, compresi tra le 30.000Lire e le 40.000Lire. Altri cinque tipi di abitazioni rurali furono redatti dalla Confederazione Fascista degli Agricoltori sotto la supervisione dell’Ente. Lo Stato supportava fino al 38% delle spese e il propietario poteva ricorrere al prestito bancario per le rimanenti necessità. La casa doveva sorgere nel podere ed in una posizione «il più possibile centrale rispetto alla configurazione planimetrica del podere stesso».
Un approfondito articolo tecnico-pratico sulle case rurali nel Latifondo Siciliano fu scritto da Ermanno M. Marzocchi per il numero speciale di Estimo Agrario e Genio Rurale del 9 Maggio 1940. Qui venivano descritte le caratteristiche fondamentali «fissate in funzione del tipo di podere, della sua estensione che sarà circa di 25ha e della composizione media della famiglia colonica». Ogni casa comprendeva:

• una cucina

• tre camere da letto

• una stalla per 6-8capi

• un silo da foraggio

• una concimaia

• forno, ovile e porcile

A queste necessità, continuava ancora il Marzocchi, dovevano essere affrontate quelle inerenti al problema dell’acqua che «devono maggiormente preoccupare chi segue l’appoderamento». Nonostante le abbondanti piogge invernali, infatti, le terre non riuscivano a trattenere l’acqua a causa dei terreni in gran parte argillosi. Così, era necessario uno studio minuzioso su ciascun podere per trovare «quelle minime polle o falde esistenti nelle pieghe del terreno» che sarebbero dovute essere in seguito captate grazie agli acquedotti rurali. Ad accompagnare l’articolo vengono anche presentati disegni e planimetrie degli ampliamenti delle varie case ECLS che mantengono «tutto nei limiti di una stretta economia». Nessuno di questi ultimi progetti vide, però, mai applicazione.
Non erano attenzionati solo i problemi legati all’approvvigionamento idrico o alla salubrità degli spazi. Si può leggere, difatti, nella nota n.19207/f  del 3 novembre 1939 come il Presidente Generale dell’Unione Nazionale Protezione Antiaerea Giuseppe Stellingwerff – proprio in quell’anno autore di “La casa che meglio resiste alle offese aeree” – si sia preoccupato di «tenere presente nella progettazione e nell’esecuzione» delle case coloniche, le norme antincendi. Secondo il dirigente, «tra le offese aeree, quella che effettivamente in determinate stagioni può avere notevole importanza, è l’offesa incendiaria, e questo è anche più sentito, dato il clima, in Sicilia che nel resto della Nazione».
Il D.M. 9 marzo 1940 autorizzava l’ECLS ad eseguire la realizzazione di 270 case coloniche «nei vari comprensori di Bonifica in luogo e per conto dei proprietari consorziali», in base al 3° Comma dell’art.7 della Legge 1/1940. Da queste disposizioni, l’Ente costruì nel Consorzio di Bonifica Alto e Medio Belice 112 abitazioni rurali, a favore di quarantotto proprietari per una spesa complessiva di 6.810.000Lire col sostegno statale del 38% pari a 2.587.800Lire.

La costruzione delle case rurali nelle contrade di Cuti – Ciolino – Monaco – San Nicola fu commissionata all’Impresa Ghilardi & C. di Palermo, sotto la direzione dell’Ingegnere Filippo Pasquini, lo stesso che in seguito si occuperà per conto dell’ERAS della realizzazione delle case di Borgo Pizzillo a Contessa Entellina e di quelle «da eseguire in zone di R.A. ricadenti nelle Madonie».
Il contratto, regolato dal Capitolato Generale della Legge sui LL.PP., fu stipulato tra l’ECLS e l’Impresa il 15 dicembre 1939, registrato a Palermo il primo Agosto dell’anno successivo, e prevedeva «nell’interesse e per conto di alcune Ditte consorziate» la costruzione di 38 case coloniche e relativi servizi per «l’ammontare complessivo, stabilito a corpo, di 1.728.722Lire al netto del ribasso dell’1,10% offerto dall’Impresa». Le ditte a cui si fa riferimento sono quelle dei proprietari delle terre soggette alle opere di miglioramento fondiario. La lista prevedeva la costruzione di 10 case coloniche 8 in tenuta Cuti e 2 in tenuta Ciolino per la famiglia Pottino, 1 casa in tenuta Monaco per la ditta Carapezza, 1 casa in tenuta Monaco per la ditta Gaudio, 1 casa in tenuta Ciolino per la ditta Pucci, 6 case di cui 4 in tenuta Monaco e 2 in tenuta Filolungo per gli eredi Pottino, 4 case in tenuta Ciolino per la ditta Pottino Marchese, 11 case di cui 10 in tenuta S. Nicola e 1 in tenuta Maccarrone per la ditta Pottino.
Tali dati furono riportati nel decreto del Ministero dell’Agricoltura e Foreste n.8872 del 19 settembre 1940, in cui «venne concesso all’Ente il sussidio dello Stato nella misura del 38% corrispondente a 817.000Lire della spesa approvata» di 2.150.000Lire per la costruzione delle abitazioni rurali. Secondo l’articolo 2 del suddetto decreto, inoltre, la consegna «delle opere sussidiate» fu fissata al 28 ottobre 1940. Proprio quel giorno, Mazzocchi Alemmanni con la nota n.25636 informava il Capo del Genio Civile di Caltanissetta Cav. Ernesto Scaglione dell’affidamento del «collaudo delle case coloniche costruite nel comprensorio di bonifica Cuti – Ciolino – Monaco – San Nicola». Questi, inoltre, si sarebbe occupato dei «rapporti tra questo Ente e l’Impresa S. Ghilardi & C. Nel contempo vi si da incarico di provvedere anche alla revisione della contabilità».
I lavori ultimati nel giugno del 1941 si «limitarono alla costruzione di n.34 case e relativi accessori» e furono collaudati con certificato del 25 Agosto 1950 per un importo di 1.778.737,84Lire, approvato dalla direzione dell’Ente stesso il 12 settembre dello stesso anno.
Il 28 marzo 1947, venne predisposta la «perizia revisione prezzi» dall’Ing. Paolo Abbadessa per certificare le «variazioni di costo dei materiali e delle mercedi». Tre anni dopo, il 14 settembre 1950 il capo del servizio amministrativo Dr. Salvatore Corselli trasmetteva il certificato di collaudo e annotava un «residuo credito dell’Impresa di 69.355,50Lire oltre lo svincolo della cauzione». Svincolo richiesto già a fine 1944, quando con raccomandata del 28 ottobre, l’Impresa riteneva esser stata ostacolata dalle «inadempienze dell’Ente appaltante nei riguardi del rispetto dei termini contrattuali per la liquidazione e il collaudo. In proposito noi ci riserviamo di svolgere ogni diritto ed azione per il danno procuratoci, tanto più grave quanto più verranno protratti questi termini».
Il 6 settembre 1948, alla luce soprattutto delle minacciate azioni legali, il Commissario straordinario dell’Ente Dr. Rosario Corona, chiedeva alla Prefettura di Caltanissetta «la pubblicazione sulla G.U. della Regione Siciliana dell’avviso ad opponendum di cui all’art.360 della legge 20 marzo 1865, n.2248 sui LL.PP.». Nel dicembre 1948, sulla Gazzetta Ufficiale della Regione n.44 parte II e III viene pubblicato l’avviso che ha in oggetto la costruzione delle case coloniche ricadenti nei territori di Resuttano e Santa Caterina Villarmosa. Con questo procedimento, l’Impresa veniva bloccata nelle sue intezioni.
Al 4 gennaio 1951, il Servizio Ingegneria sollecitava il Servizio Amministrativo (Affari Generali) perchè si procedesse alla «regolare delibera di approvazione». La perizia ammontava a 1.425.963,50Lire e fu accettata dal direttore dell’Ente, l’Ing. Mario Ovazza. L’Impresa di costruzione ricevette il denaro pattuito solo il 10 giugno 1953, quando l’Abbadessa certificò il pagamento della cifra revisionata.
Nel volume edito dalla Cassa per il Mezzogiorno sulle attività svolte nel quinquennio 1950 – 1955 vengono raccolte le informazioni sulle zone di intervento su cinque comprensori siciliani per complessivi 325.000ha.: Platani e Tumarrano in cui sorgono i borghi Pasquale, Ficuzza, Callea che ebbero un notevole supporto economico prorio dalla CASMEZ. Il Salito, il Salso Inferiore, Quattro Finaite Giardo, Cuti, Ciolino, Monaco, San Nicola. Nel resoconto stilato dall’Ufficio tecnico dell’Ente si legge come nel comprensorio Cuti-Ciolino-Monaco-S. Nicola di 80.530ha, tipicamente argilloso e variamente solcato da torrenti e valloni, la Cassa ha finanziato opere di sistemazione montana, nonché il completamento della strada consortile Cuti-Ciolino di km. 18, per 153.000.000 di lire, suddivisi in 145.198.000Lire per le opere stradali e civili (5 settembre 1953) e 11.800.000Lire per lo studio per la ricerca delle acque da utilizzare per la costruzione dell’acquedotto della zona (7 maggio 1953).
Successivamente, con le analisi e le opere realizzate al 31 dicembre 1961 grazie ai suoi stessi fondi, la CASMEZ poteva vantare – solo nell’area qui presa in considerazione – ben 677.000.000Lire investiti per le opere complessive, suddivise in 293.000.000Lire per i lavori stradali e civili, 369.000.000Lire per le opere montane, 2.000.000Lire per studi e ricerche e 13.000.000Lire per l’elettrificazioni. Dalle stime contenute in questo volume più recente, la superficie del comprensorio si estendeva per 76.250ha e gli investimenti diretti (bonifica, servizi civili e riforma) raggiungevano una spesa di 648.000.000Lire mentre quelli indotti (agricoltura, industria e altre attività) 9.453.000Lire, per un totale di 11.636.000Lire.
Al 1965, i finanziamenti per le opere di sistemazione montana ammontavano 350.000.000Lire ed il completamento della strada consortile Cuti-Ciolino di 18 chilometri arrivava a toccare i 277.000.000Lire.
In tutte le fonti fino ad ora consultate non si parla mai della realizzazione dei due centri rurali citati all’inizio: Borgo Ciolino e Borgo Ingrao. Se del primo si perdono le tracce progettuali, non si può dire lo stesso per Borgo Giovanni Ingrao che avrebbe fatto parte della terza serie di fondazioni rurali ECLS  – insieme ai borghi Manganaro, Francavilla, Burrainiti, Carruba e Fiumefreddo, questi ultimi gli unici di tipo ridotto degli anni fascisti. I primi due saranno realizzati dall’ERAS gli altri, invece, rimasero su carta.
Giovanni Ingrao, insignito della Medaglia d’Oro, fu Sottotenente di vascello caduto il 22 giugno 1940 presso Costa Ligure. Su progetto del 15 marzo 1941 dell’Ing. Pietro Villa, la costruzione del Borgo Ingrao fu definita «imminente» in una lettera del Maggio di quell’anno, anticipando quella di Borgo Giovanni Bonanno che avrebbe sfruttato la chiesa del Santuario di Tagliavia nel corleonese.
Passata la guerra, nella zona scompare qualsiasi riferimento a Borgo Ingrao e compare, invece, la dicitura di Borgo Tùdia cosi come indicato nella carta dei Borghi di servizi e dei terreni assegnati, redatta dall’ERAS nel 1953. Ancora, però, il Borgo risultava come “da progettare”.
Il destino delle case di Cuti – Ciolino – Monaco – San Nicola era già scritto ben prima del loro collaudo. Nella raccomandata precedentemente citata in cui l’Impresa lamentava delle inadempienze dell’ECLS e rivendicava uno svincolo contrattuale, si legge che il passare del tempo, «le cause di guerra e […] i saccheggi» stanno portando ad un graduale invecchiamento delle strutture. L’impressione che ebbero i dirigenti della Ghilardi – «spiacenti che si tengano in cosi poco conto i sacrifici fatti per ultimare quelle 34 case coloniche» – sembra sottolineare ancora una volta una semplice voglia propagandistica dell’assalto al latifondo che vide un’attuazione pratica di assoluto insuccesso. Oggi come allora, le abitazioni vivono una dimensione di sospensione in attesa che il tempo o l’azione umana ne cancelli la presenza e il ricordo.